Continuo e discreto - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Dei della matematica
Dei della matematica | Copyright: Daniel Ari Friedman / Flickr

Continuo e discreto

Il nuovo saggio di Paolo Zellini è un concerto di elementi grandiosi e remoti. Non solo matematica, ma riti, filosofie e demoni di ogni tempo. Una lettura.

Dei della matematica | Copyright: Daniel Ari Friedman / Flickr
Tommaso Guariento

 

è nato a Padova (1985). È dottore in ricarda di Studi Culturali presso l’Università di Palermo. Scrive per diverse riviste on-line (L’indiscreto, Not, Singola, Che Fare). È membro della cooperativa La Scuola Open Source. Il suo primo libro, Miti, Meme, Iperstizioni, è pubblicato da Krill Books.

 

Certi libri agiscono come chiavistelli, o, per usare un’espressione latina, come una clavis universalis. Simili alla narrativa mise en abyme, essi contengono, incastonata, una porzione di testo che si connette, metonimicamente, con il tutto. Il nuovo libro di Paolo Zellini, professore di Analisi Numerica all’Università di Roma Tor Vergata, uscito per i tipi di Adelphi, svolge egregiamente queste funzioni.

Discreto e Continuo è una porta che apre ad altre porte, innanzitutto ad altri libri di Zellini, come La dittatura del calcolo (Adelphi 2018) e La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini (Adelphi 2016). In questi testi il tema del continuo è affrontato dal punto di vista di una genealogia dell’attuale paradigma scientifico-tecnologico, il quale comprende come sue ramificazioni: il deep learning, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e lo studio dei fenomeni fisici attraverso simulazioni informatiche. Questa ramificazione, osserva Zellini, non appartiene ai recenti sviluppi della matematica e dell’ingegneria informatica, ma trova le sue radici agli inizi del ‘900, con la crisi dei fondamenti inaugurata da Kurt Gödel e prosegue con l’aritmetizzazione dell’analisi e lo sviluppo della scienza applicata.

La dialettica fra discreto e continuo, inoltre, è un tema prettamente ‘adelphiano’, ovvero una dicotomia concettuale fondamentale che si sovrappone ad altre dicotomie trattate in altri volumi - analogico e digitale, materiale e spirituale, mente e mondo, pre-modernità e modernità, magia e scienza, sacrificio ed esperimento – per citarne alcune.

Che cos’è una casa editrice se non un lungo serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che comprende in sé molti generi, molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore” (Roberto Calasso, L’impronta dell’editore)

La collocazione del volume di Zellini all’interno del ‘serpente di libri’ adelphiano si manifesta innanzitutto nei riferimenti interni del testo, soprattutto a L’ardore di Roberto Calasso, saggio sulla ritologia vedica che offre una controparte mitologica e religiosa alle riflessioni matematiche di Zellini.

Il modo connettivo e il modo sostitutivo corrispondono a due elementi irriducibili della natura – e della mente che la osserva: il continuo e il discreto. Il continuo è il mare; il discreto, la sabbia. Il modo connettivo si assimila al continuo, in quanto incessantemente produce un amalgama, una striscia ininterrotta di figure che entrano una nell’altra. Il modo sostitutivo moltiplica indefinitamente i granelli che, visti a una certa distanza, compongono una sola figura ben distinta, così come il retino permette alle cose fotografate di lasciarsi riconoscere. Più che categorie, il continuo e il discreto sono dimensioni con le quali la mente opera senza tregua. E con esse opera il mondo” (Roberto Calasso, L’ardore)

Discreto e continuo offre la visione sinottica di una polarità matematica attraverso varie prospettive. Chi aprirà il libro potrà trovare: corrispondenze fra la ritologia indiana e la genesi della matematica, riflessioni sulla filosofia della matematica greca e novecentesca, precise trattazioni dell’algebra matriciale (tema che si trova anche nei precedenti saggi di Zellini ma che in questo volume viene sviluppato in tutta la sua complessità), e infine una periodizzazione delle riflessioni matematico-filosofiche sul continuo (Euclide, Aristotele e Platone per quanto riguarda la Grecia, Newton e Leibniz per ciò che concerne il calcolo delle flussioni, Bolzano, Cantor e Dedekind per il periodo che va dal XIX secolo all’inizio del XX secolo, la ‘crisi dei fondamenti’ e il programma di Hilbert, e, infine, l’algebra matriciale, nelle sue applicazioni fisiche e militari e lo studio delle serie temporali da parte di Norbert Wiener).

Il volume di Zellini esibisce nella sua copertina un’illustrazione di William Blake di una nota scena del Riccardo III di Shakespeare, una scena che descrive un momento decisivo dell’opera teatrale nel quale il regnante cerca di scacciare i fantasmi delle persone ch’egli ha ucciso nella sua scalata al potere. Il libro apre quindi ad un tema insolito – il rapporto fra matematica e demonologia, o, più precisamente, fra le legioni di demoni e la struttura accrescitiva e dinamica dei numeri e delle figure geometriche.

Ma che rapporto ci dovrebbe essere fra demoni ed enti matematici? Non si tratta di due figure concettuali contrapposte, provenienti da ontologie e modi di pensiero radicalmente distinti? Secondo Zellini questa distinzione è errata, così come è errata un'altra concezione – quella che vede il continuo come una formulazione matematica oltrepassata da una visione rigidamente digitale.

I demoni e gli dèi, osserva Zellini, sono entità nonumane che si dispongono in una gerarchia, sono figure che numerano e nominano singole entità nel flusso costante della generazione e della corruzione delle cose.

Agendo in modo indiscriminato in ogni tempo e per ogni dove, i demoni dovevano dunque contare su tutte le possibili giunture che consentissero un transito ininterrotto e continuo tra visibile e invisibile, tra copro e spirito” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

Fu Giordano Burno ad associare i punti, specialmente quelli che concorrono alla costruzione di complesse figure geometriche, a spiriti e demoni […] la stessa vita demonica era già stata percepita, nella remota antichità, proprio dai primi studiosi della scienza geometrica di cui Bruno si serviva per rappresentare gli aspetti più impenetrabili del mondo umano e divino” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

I demoni sono simili a punti fissi o a figure geometriche, svolgendo la funzione di fissare la costanza nel cambiamento. Ne La matematica degli déi e gli algoritmi degli uomini Zellini riporta un’osservazione di Simone Weil che connette la genesi della matematica e della geometria all’“estrema attenzione rivolta a immagini pensate come riflessi o incarnazioni della realtà divina”. Questa serie di osservazioni sarebbe certamente piaciuta a Kurt Gödel, platanista convinto, che concepiva, in una maniera estremamente lontana dal logicismo dell’epoca, la matematica come un’operazione di visione. Secondo il logico viennese:

«La realtà matematica, il mondo matematico, non comprende solo oggetti morti come i numeri o i concetti, ma anche esseri viventi, spiriti, angeli, demoni [...] Questi esseri bizzarri, Dio, gli angeli, i demoni, i fantasmi, non esistono allo stesso modo in cui esistiamo noi umani. Ad esempio, una domanda che Gödel si pone, è se abbiano un corpo e come questo sia fatto. Non comprendiamo la loro esistenza, anche se la sentiamo, e, persino, la percepiamo con un organo molto specifico: una specie di occhio al centro del cervello” (Pierre Cassou-Noguès, Les démons de Gödel)

Il libro di Zellini non contiene solamente una trattazione della matematica in termini di studio delle imagines agentes, esso si situa piuttosto in una zona di confine fra il rigore dell’esposizione e la ricerca delle origini rituali e mitologiche del pensiero scientifico. Gli enti matematici non sono quindi solamente ‘scoperti’ dalla visione platonica, essi sono prodotti. L’attività di chi opera nella matematica non è puramente pattern recognition, ma anche ideazione di schemi: è questo aspetto costruttivo, pratico, algoritmico che Zellini giustappone alla visio mistica, teoretica e platonica.

La storia dello sviluppo moderno della matematica del continuo è intimamente legata ad una connessione con lo studio dei fenomeni naturali. Il continuo e l’infinito sono concetti centrali per lo studio del moto, dei fluidi e dei campi, poiché sono costrutti matematici che si rivelano necessari a tracciare e calcolare gli spostamenti e le mutazioni dei corpi nello spazio e nel tempo. Il continuo e l’infinito, inoltre, generano paradossi che possono essere risolti solamente attraverso la costruzione di una gabbia strutturale che renda efficace la loro essenza. Da qui lo sviluppo della teoria russelliana dei tipi, che serve appunto a stabilire una gerarchia degli enti matematici e a introdurre una serie di tagli e discontinuità nell’informità del continuo. Da qui, inoltre, il progressivo distanziamento delle tecniche di calcolo dal fenomeno naturale. Nella seconda metà del XX secolo si passa dalle equazioni differenziali al calcolo digitale per il tramite dell’algebra matriciale, che non è una semplice conseguenza dell’invenzione del computer, ma una branca della matematica che costituisce oggetti che hanno determinate proprietà (ad. simmetria, dislocazione dei parametri, etc.).

Negli stadi successivi della modellizzazione della natura, dall’equazione differenziale o integrale fino al calcolo digitale, capita di allontanarsi da ogni possibile intuizione diretta del fenomeno fisico, per inoltrarsi in fatti pertinenti alla matematica pura. La tesi riduzionistica secondo cui tutto deve potersi ridurre a computazione digitale, cioè a un’informazione che si materializza in liste di numeri da interpretarsi come componenti atomiche del calcolo, non riflette bene la situazione. Non si passa direttamente dal modello differenziale alle operazioni tra numeri, perché la riduzione a calcolo digitale è possibile solamente per via di numerosi e delicati passaggi intermedi dove si incontrano oggetti matematici (per lo più matrici e vettori) le cui proprietà sono necessarie per poter operare quella riduzione” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

Le matrici sono tabelle di numeri, disposti per righe e colonne, i quali rappresentano i coefficienti di equazioni lineari, le cui incognite sono tutte elevate alla prima potenza. I vettori sono invece matrici composte da un numero n di righe per una sola colonna. Lo spazio vettoriale è un costrutto matematico fondamentale per rappresentare una base di dati in maniera multidimensionale. Uno spazio vettoriale multidimensionale si ha, ad esempio, nel caso in cui si debba costruire una particolare rete semantica fra concetti, parole o immagini da classificare: questi vengono categorizzati secondo parametri numerici che codificano la loro posizione in uno spazio relazionale. Ad esempio, dati i vettori ‘animato, inanimato e verde’, è possibile classificare un certo numero di enti disponendoli all’interno di una griglia cartesiana sugli assi x (animato), y (inanimato) e z (verde).

Le matrici possono essere sommate, moltiplicate e invertite e inoltre possiedono la proprietà di essere ‘compresse’ mediante algoritmi che, individuando dei pattern al loro interno, come ad esempio la disposizione o la somiglianza fra gli elementi, i quali possono rendere più veloci ed efficaci le operazioni di calcolo.

Poiché le matrici servono a risolvere, attraverso un calcolo parallelo e digitale, dei problemi di modellizzazione dei fenomeni fisici continui, a partire dagli anni ’40 esse verranno impiegate diffusamente in una miriade di operazioni, dalla balistica al machine learning, dalla fisica nucleare alla meteorologia.

L’algebra dei vettori e delle matrici si è sviluppata inizialmente in ambito geometrico e algebrico, ma col tempo sono diventate sempre più evidenti le implicazioni del calcolo matriciale in diversi settori della matematica applicata, nello studio degli equilibri, nella meccanica, nella fisica teorica, nell’ingegneria elettronica e nell’informatica, ad esempio nelle sue interazioni con gli aspetti numerico-computazionali dei motori di ricerca su rete. La vera novità del calcolo, a iniziare dagli anni Quaranta e Cinquanta, stava nell’elevata dimensione dei problemi, e nel fatto che le matrici dei coefficienti di un sistema di equazioni lineari, che si proponga di simulare con sufficiente precisione un fenomeno fisico, ha decine di migliaia di righe e di colonne. La risoluzione di un simile sistema richiede allora un procedimento automatico che tenga conto delle tecniche di rappresentazione dei numeri, del tempo di esecuzione e dello spazio di memoria necessario. Questa circostanza impone un radicale cambiamento delle leggi aritmetiche con cui sono eseguiti i calcoli” (Paolo Zellini, La matematica degli dèi e gli algoritmi degli uomini)

L’aritmetizzazione dell’analisi ha permesso lo sviluppo di una scienza del calcolo che riduce il continuo a una serie di operazioni parallele semplici, su parametri discreti, processando una quantità di dati talmente vasta da essere indisponibile e inavvicinabile nella sua interezza ad uno sguardo umano.

Le matrici hanno anche avuto un’altra funzione, quella di fornire una rappresentazione discreta del fenomeno temporale, una rappresentazione di tipo leibniziano, nel quale il tempo non scorre in un’unica direzione, ma si sviluppa, in modo onnidirezionale, come all’interno di una matrice circolante di livello 2.

Il fato

Il fato | Daniel Ari Friedman / Flickr

Bradley ammette che non è difficile concepire una varietà di serie temporali esistenti nell’Assoluto. “La direzione di ciascuna serie potrebbe riferirsi a se stessa e potrebbe non avere alcun significato al di fuori. E poteremmo anche immaginare, se ci piace, che tali direzioni siano opposte l’una rispetto all’altra” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

La rappresentazione matriciale del tempo, osserva Zellini, ci aiuta, attraverso le proprietà matematiche ed iconiche delle matrici (più precisamente delle matrici di Toeplitz), a visualizzare un divenire che non è semplicemente una sequenza lineare d’istanti, ma una serie infinita d’intervalli di lunghezza decrescente incastonati l’uno nell’altro.

Così come la monade leibniziana contiene al suo interno un’immagine in miniatura del cosmo – essa è cioè il seme dell’intero sviluppo dell’universo – la matrice di Toeplitz possiede delle proprietà di nidificazione ed autosimilarità. Allo stesso modo, il fluire del tempo non avviene come una semplice successione di numeri naturali, ma come una sequenza infinita di scelte fra intervalli.

Il rapporto fra il fluire tempo e le sequenze di numeri è fondamentale. Secondo l’intuizionismo, la percezione mentale della sequenza, espressa nella sua forma più archetipica come taglio fra un prima e un dopo, è l’origine della matematica. Sono disponibili al pensiero matematico diverse sequenze: quella dei numeri naturali (1,2,3…), quella dei numeri razionali (1/2, 1/3, 1/5…), e quella dei numeri irrazionali (,, …). Come dimostrato da Cantor e Dedekind, c’è una differenza fondamentale fra i numeri naturali e razionali e quelli irrazionali: i primi sono enumerabili, mentre i secondi no. In altre parole, è possibile mettere in corrispondenza 1 a 1 tutti i numeri interi e tutte le frazioni, ma lo stesso non si può fare con grandezze irrazionali come la , e questo corrisponde ad un’intuizione geometrica nota anche ai Pitagorici, ovvero che non è possibile trovare una relazione (se non attraverso approssimazioni infinite) fra la diagonale e il lato di un quadrato, così come è impossibile farlo fra la circonferenza e il suo raggio. Al posto della relazione, viene utilizzato un simbolo matematico che esprime mediante astrazione condensazione una sequenza numerica infinita di numeri casuali.

C’è qualcosa d’intermedio fra continuo e discontinuo? Qualcosa che partecipa della natura di entrambi? Un’idea plausibile è quella del numero irrazionale come sintesi di continuo e discontinuo (o discreto). Infatti il numero è concepibile solo come coppia di successioni di rapporti effettivamente calcolabili che hanno la proprietà di creare una sezione nel corpo dei razionali. Quelle successioni sono discrete, e hanno un’esistenza di tipo algoritmico, e tuttavia esse individuano una sezione, qualcosa che non ha lo stesso carattere di realtà e di evidenza di un numero intero o di un rapporto tra numeri interi. Sembrerebbe che noi abbiamo bisogno, in un certo senso, del discreto per concepire il continuo. L’unico modo in cui possiamo concepire è per via di una successione di intervalli nidificati, i cui estremi sono due frazioni successive definite da numeri laterali e diagonali, calcolare con un algoritmo per via di infiniti passi discreti” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

Una definizione algoritmica dei numeri irrazionali è stata fornita dal matematico argentino naturalizzato statunitense Gregory Chaitin in un libro: (sempre pubblicato da Adelphi) Alla ricerca di Omega. Secondo la definizione di Chaitin, i numeri irrazionali sono definibili come numeri la cui computazione è incomprimibile. Essi sono casuali perché le cifre che li compongono, dopo la virgola, equivalgono agli esiti del lancio di una moneta non truccata: non c’è modo di prevedere il loro esito, ovvero, non c’è modo di stabilire anticipatamente, una legge o un algoritmo che sia un grado di comprimere il loro contenuto informativo.

Il matematico francese Émile Borel, studiando i paradossi dell’infinito e del continuo, era pervenuto a considerare come ‘reali’ solamente quegli insiemi di numeri che potessero essere effettivamente numerabili, ovvero generabili tramite una procedura algoritmica. La non numerabilità del continuo, quindi, corrisponderebbe ad una caratteristica del suo concetto matematico, troppo vago o generico per essere definito in maniera precisa.

Il paradosso di Borel afferma che se si considera un numero reale come 3,1415926… come una sequenza infinita di cifre, allora al suo interno è possibile inscatolare la totalità della conoscenza umana.

“[il numero di Borel] può fungere da oracolo e rispondere a qualsiasi domanda «sì/no» (alla quale, cioè, si possa rispondere sì o no) che possiamo mai porgli. Come? Basta numerare tutte le possibili domande: a quel punto l’N-esima cifra, o l’N-esimo bit, del numero di Borel dirà se la risposta alla domanda N-esima è sì oppure no! Se si potesse compilare una lista di tutte le possibili domande sì/no e delle sole domande sì/no valide, il numero di Borel potrebbe fornire la risposta nelle sue cifre binarie. A questo punto, Borel pone una domanda assai inquietante: «Per quali ragioni dovremmo credere in questo reale che risponde a ogni possibile domanda sì/no?» e la sua risposta è che no, non c’è nessuna ragione. Secondo Borel, questo numero è solo una fantasia matematica, uno scherzo, una reductio ad absurdum del concetto di reale” (Gregory Chaitin, Alla ricerca di Omega)

Il rapporto fra discreto e continuo, abbiamo visto, implica che esista una relazione complessa fra matematica e fisica. Una concettualizzazione fisica del problema dei Borel è stata avanzata nelle teorie neo-atomistiche contemporanee, le quali comprendono alcune interpretazioni della meccanica quantistica e della fisica digitale. Secondo queste teorie, l’impiego di grandezze continue, esemplificato nell’uso di numeri reali e quantità infinite nelle equazioni fisiche, è una sorta di errore interpretativo. Come fa notare il fisico Nicolas Gisin, i modelli di meccanica classica fanno uso di numeri reali per determinare le condizioni iniziali di un sistema (ad esempio, posizione e momento angolare), tuttavia, se si considera un sistema fisico reale attraverso la teoria della relatività e attraverso la teoria dell’informazione di Shannon, è necessario affermare che: a. ogni stoccaggio di una quantità d’informazione richiede una certa quantità di energia, e densità di energie sufficientemente alte producono buchi neri, b. un sistema fisico, ad esempio, un volume di un centimetro cubo, può contenere un oggetto di una certa massa, e il centro della massa dell’oggetto non può essere definito da numeri reali, perché questi contengono un’informazione infinita.

Una simile interpretazione neo-atomista dei fenomeni fisici, questa volta di quelli quantistici, è stata fornita dal fisico italiano Carlo Rovelli, che in Helgoland (sempre pubblicato da Adelphi) osserva come la quantità d’informazione rilevante che possiamo avere su un oggetto fisico è finita: lo spazio non è continuo, è discreto. Allo stesso modo, afferma Rovelli ne L’ordine del tempo, il fluire del tempo non è un divenire continuo, ma ha una struttura granulare, prende solo certi valori e non altri:

Se conoscessimo tutte le variabili fisiche che descrivono una cosa con precisione infinita, avremmo informazione infinita. Ma non possiamo. Il limite è determinato dalla costante di Planck . È questo il significato fisico della costante di Planck. È il limite a quanto sono determinate le variabili fisiche […] I fenomeni quantistici rivelano un aspetto granulare del mondo, a piccolissima scala. La granularità non riguarda solo l’energia: è estremamente generale. Nel mio campo di studio, la gravità quantistica, si mostra che lo spazio fisico in cui viviamo è granulare a piccolissima scala. Anche in questo caso, la costante di Planck determina la scala (piccolissima) dei «quanti elementari di spazio». (Carlo Rovelli, Helgoland)

Esiste una scala minima per tutti i fenomeni. Per il campo gravitazionale questa si chiama “scala di Planck”. Il tempo minimo è chiamato “tempo di Plank” […] La “quantizzazione” del tempo implica che quasi tutti i valori del tempo t non esistono. Se potessimo misurare la durata di un intervallo con l’orologio più preciso immaginabile, dovremmo trovare che il tempo misurato prende solo certi valori discreti speciali. Non possiamo pensare la durata come continua. Dobbiamo pensarla discontinua” (Carlo Rovelli, L’ordine del tempo)

A queste teorie sembra implicitamente far riferimento Zellini quando, nell’ultimo capitolo del suo saggio, ci parla del continuo come approssimazione del discreto. In realtà, Zellini è più fedele alla trattazione di Calasso che alle interpretazioni di Chaitin e Rovelli. La ricostruzione della dialettica fra discreto e continuo, afferma Zellini, non può essere completa se si pensa che una parte abbia il sopravvento sull’altra. Ad esempio, nella termodinamica si utilizzano equazioni differenziali le cui variabili assumono valori nel continuo, ma tali equazioni, osserva Boltzmann, sono simboli di idee atomistiche. In modo opposto, Bernhard Riemann afferma che le nostre rappresentazioni continue dello spazio forse non sono altro che un’approssimazione “troppo umana” per comprendere un fenomeno discontinuo. E, di nuovo, è possibile affermare che l’impiego di metodi discreti, algoritmici e digitali presupponga un continuo indefinibile e incalcolabile. Seguendo questa linea di argomentazione, possiamo vedere l’intuizione cantoriana dell’infinito come una controparte della teoria del calcolo di Turing, ma anche osservare, come fa Zellini, che un teorema fondamentale dell’algebra matriciale dipende dallo spazio di Hilbert, che invece comprende la complessità del campo continuo dei numeri reali.

Ne L’ardore Calasso riassume il principale nucleo teorico del tema di cui il saggio di Zellini è un’espressione espansa. Nel giro di pochi paragrafi, Calasso delinea la differenza e la relazione fra due modalità del pensiero umano: la connessione e la sostituzione. Il modo ‘connettivo’ precede cronologicamente quello ‘sostitutivo’ e concerne l’uso del pensiero analogico. Esso presiede alle metafore ed ai miti, alle segnature e alle corrispondenze, alla magia e alla creazione letteraria. Il pensiero sostitutivo si basa invece sulla quantità, sul numero e sulla partizione.

È filologicamente corretto interpretare in modo ‘esoterico’ il saggio di Zellini, intendendo il testo come la scaglia di un serpente ‘continuo’ costituito dalla biblioteca Adelphi, che irradia dalla sua unica prospettiva monadica una luce che illumina e lascia in ombra certi temi e certi libri. Nel progetto calassiano la dialettica fra continuo e discreto assume dei connotati ‘istoriali’, per usare un’espressione heideggeriana: il mondo attuale è dominato dal regno del discreto. Il saggio di Zellini, che mette in luce l’antica e moderna connessione fra continuo e discreto rappresenta quindi un contravveleno alla fonte dell’origine della decadenza del mondo moderno: l’ipertrofia del discreto e del digitale. La stessa opera letteraria di Calasso svolge questa funzione: quella di controbilanciare il regno della quantità con il dominio dell’analogia, nella mitologia greca, nei riti vedici, nelle corrispondenze letterarie, nello studio dello sciamanesimo e dei misteri e, infine, nella strutturazione della stessa Adelphi come un ipertesto.

Di questo siamo fatti. Come la numerazione binaria, nella sua elementarità, permette inesauribili applicazioni, così le due modalità della mente si prestano a sostenere le più diverse costruzioni, combinandosi, mescolandosi o respingendosi. E perennemente richiamandosi l’una all’altra. Ogni decisione che pretenda di scinderle o dichiari il predominio dell’una sull’altra è vana, perché entrambe continuano a operare, consapevolmente o no, in ogni istante, per chiunque e in chiunque” (Roberto Calasso, L’ardore)

Espulso dal «paradiso di Cantor», dove ancora regnava il continuo, anche nei suoi aspetti più sconcertanti, Homo è tentato di costruirsi un nuovo paradiso, abitato soltanto dalle schiere sterminate dei bit. Ignorando senza rimedio la costituzione della vita cosciente, che senza il continuo non potrebbe darsi” (Roberto Calasso, L’innominabile attuale)

L’arte della computazione è diventata scienza del calcolo. Non c’è allontanamento dall’analisi più concettuale, se mai una più intensa relazione tra teoria e prassi, tra pensiero e tecnica, ora riscontrabile in tutte le sedi ufficiali della ricerca avanzata. E ciò in netta contrapposizione allo stile teorico e introspettivo del pensiero scientifico del primo Novecento. Il totalitarismo cibernetico non nasce solo come fenomeno sociale, economico e tecnologico, o dalla deformazione del rapporto tra macchina e uomo già denunciata da Norbert Wiener. Esso deve pure la sua affermazione e la sua diffusione planetaria a sviluppi più ideali e teoretici, specialmente alla rimozione e alla trasformazione dei grandi progetti della matematica e della filosofia di fine Ottocento, a un graduale slittamento della coscienza scientifica e alla fatale attrazione di una materialità algoritmica” (Paolo Zellini, La dittatura del calcolo)

Il nucleo centrale verso cui gravitano molti saggi di Calasso, e in modo speciale L’ardore, è quello del sacrificio. Macchina mitologica per eccellenza, il sacrificio non si riesce a cogliere se non a partire da una impostazione ontologica diversa da quella moderna. Il sacrificio non è caratterizzabile attraverso dei modelli antropologici positivi: non si rivela nelle descrizioni di Durkheim né in quelle di Girard, né tantomeno in quella di Lévi-Strauss. Ed è importante riportare l’interpretazione levistraussiana del sacrificio perché ad essa si contrappone la visione di Calasso che informa anche il libro di Zellini. Per l’antropologo svizzero il sacrificio dev’essere interpretato in modo strutturale come un’operazione connette serie eterogenee: una sfera umana e una sfera divina. Ora, nell’interpretazione che ne dà l’allievo più influente di Lévi-Strauss, Philippe Descola, il sacrificio è l’invenzione di una tecnica concettuale e rituale che permette di mettere in comunicazione, all’interno di un’ontologia analogista, serie eterogenee di entità partizionate in classi. Mentre per la nostra ontologia, quella della scienza moderna, definita da Descola naturalismo, esiste una divisione molto netta fra due categorie, della natura e quella della cultura, nell’analogismo, modello di pensiero che si lega all’ermetismo, alla magia alle culture imperiali della Cina e della Mesoamerica, tutti gli enti sono composti dalle stesse unità combinatorie. La dispersione delle componenti elementali di ogni ente richiede che gli esseri umani compiano dei rituali di riunificazione e riequilibrazione, come sono appunto i sacrifici, che sono un nexum fra la discontinuità delle qualità occulte e la continuità ricercata dall’uomo.

L’efficacia attribuita al dispositivo sacrificale deriva, al contrario, dal fatto che la vittima si presenta come un pacchetto composito di proprietà diverse, alcune identiche a quelle del sacrificante […], altre identiche a quelle della divinità […] altre infine identiche a quelle dei sostituti che possono prenderne il posto […] Ed è precisamente questa scomposizione degli attributi della vittima, sullo sfondo di un frazionamento generale degli esistenti in una moltitudine di componenti, che le permette di svolgere una funzione di collegamento grazie all’identificazione di ciascuno degli attori del rito ad almeno una delle sue proprietà […] Potremmo quindi intendere il sacrificio come un mezzo di azione sviluppato nel contesto delle ontologie analogiste per istituire una continuità operativa tra singolarità intrinsecamente differenti, e che utilizza a questo scopo un dispositivo seriale di connessioni e di disconnessioni che funziona sia come attrattore - di una connessione in senso inverso sia come interruttore - di una connessione già esistente su un altro piano e che si cerca d’interrompere” (Philippe Descola, Oltre natura e cultura)

Questa spiegazione strutturale, avrebbe potuto affermare Calasso, si basa su un presupposto erroneo, tipico di tutta l’antropologia positiva, ovvero sul fatto che la spiegazione di un sacrificio sia esprimibile nei termini di una funzione sociale. In altre parole, in questa descrizione, la discontinuità fra sfera umana e sfera divina è solamente un’illusione che risiede negli occhi degli osservati, quando, dal punto di vista esteriore dell’antropologo, ciò che fanno i riti è semplicemente collegare le parti di una società o di una concezione ontologica del mondo con sé stesse. Ciò che il sacrificio fa, per Calasso, è l’istituzione di un dono o un flusso continuo fra due piani della realtà. Il sacrificio è codificato da una stretta intelaiatura di norme gestuali, dietetiche, operazionali e verbali. Gli dèi si nutrono ciò che l’uomo offre, mentre l’uomo s’immerge in (o si eleva ad) un universo di corrispondenze analogiche.

All’origine della visione sacrificale è il riconoscimento di un debito contratto verso l’ignoto e di un dono che va rivolto all’ignoto. Nessuna epistemologia può intaccare questa visione. Il concetto le passa accanto, senza urtarla. Che cosa obiettare a qualcuno che si sente in debito verso l’ignoto e al tempo stesso vuole offrirgli un dono? Al più, che si tratta di un comportamento dissennato. Ma un sentimento non si lascia confutare. E, prima di diventare una liturgia e una metafisica, la visione sacrificale fu un sentimento – una reazione chimica che può svilupparsi in chiunque sia esposto a esistere. Quel sentimento sta al fondo di tutto – e su tutto getta la sua ombra. Soltanto se è labile può essere dissolto da argomenti. A cui potrebbe agilmente sottrarsi, come l’animale che scompare nell’intrico della foresta appena si avvicina il cacciatore” (Roberto Calasso, L’ardore)

Un senso della precarietà così alto, così acuto, così dilaniante da far apparire come dono improbabile, e sempre sul punto di essere revocato, la continuità del tempo. Perciò è urgente intervenire subito con il sacrificio, definibile come quella cosa che l’officiante tende, estende. Questo tessuto dalla materia non definita (il sacrificio) si deve «tendere», tan-, perché si formi qualcosa di continuo, senza strappi, senza interruzioni, senza lacune dove potrebbe insinuarsi il «rivale malevolo» sempre in agguato; qualcosa che, per questo suo carattere di elaborata costruzione, si opponga al mondo, il quale in origine si presenta come una serie di strappi, di interruzioni, di frammenti nei quali si riconosceranno i lacerti del corpo disarticolato di Prajāpati” (Roberto Calasso, L’ardore)

Chi ha letto i precedenti saggi di Zellini saprà che la ricostruzione del corpo smembrato di Prajāpati è il nucleo matematico-rituale della geometria vedica. La costruzione dell’altare del fuoco prevede che venga strutturato uno spazio sacro costruito da una figura geometrica composta da quadrati e rettangoli che rappresenta il dio Agni, ovvero il fuoco che è in grado di riconnettere le disjecta membra del corpo spezzato di Prajāpati. È proprio a partire dalle misurazioni di questi mattoni, che nella ritologia rappresentano dèi e uomini, che prende avvio la geometria occidentale secondo Zellini. È precisamente lo studio dell’aumento di grandezza dell’altare – il quale cresce pur mantenendo intatto il suo schema geometrico - che ha condotto alla scoperta di rapporti geometrici. Centrale, in questo procedimento matematico-rituale è l’intuizione della continuità, intesa come invarianza di scala e come riempimento delle lacune e dei salti fra una figura e l’altra. Si trattava allora di un problema religioso, quello dell’introduzione del male. Agni è il sacrificio, avendo istituito che il mondo umano fosse luogo del sacrificio e che questo dovesse essere continuo, come nel mito originario in cui il dio concepisce il canto come una sequenza ininterrotta, funzionale alla protezione del suo cibo.

Dunque i ṛṣi [veggenti] percepiranno in origine la forma dell’altare in cui dovevano essere ricomposte le membra disgiunte di Prajāpati, e questa forma archetipica di percezione, coerente con la natura dei deva [potenze celesti], rendeva possibile la crescita (dell’altare), dal seme iniziale, in una successione articolata di pezzi congiunti con esattezza matematica […] Il liquido sacrificale versato in abbondanza è come un ammasso di numeri che, convenientemente ordinati, puntano a un riempimento di ogni residua lacuna. Non poteva certo essere estranea alla prassi sacrificale l’idea di una potenza generatrice e immagini, oppure di progressiva crescita ed estensione di figure geometriche. Lo dimostrano i trattati della corda per la costruzione degli altari del fuoco nel rito vedico” (Paolo Zellini, Discreto e continuo)

Questa potente immagine “il colare del sangue sacrificale come flusso di numeri” non è stata scelta a caso da Zellini, è anzi lo sviluppo matematico di una formula calassiana, quella della sostituzione, nella società moderna, del sacrificio con l’esperimento. Entrambe le pratiche operano con entità nonumane, ed entrambe sono rivolte all’ignoto, l’una con l’offerta di un dono, l’altra con il tentativo d’ingabbiare il reale nelle maglie del discreto.

Nostra posizione di invertita divinità rispetto all’esperimento: come gli dèi con i sacrifici, ne aspiriamo i fumi, lasciando che i corpi vengano distrutti. Il fumo del sacrificio sono oggi i numeri, i protocolli sperimentali” (Roberto Calasso, La rovina di Kasch)

Lo smembramento della continuità, seguendo l’ultimo spunto analogico del ricco libro di Zellini, è infine una pratica concettuale, più precisamente un’anatomia filosofica. Com’è noto, nei Dialoghi di Platone è presentato il metodo socratico: uno sforzo di far emergere la verità attraverso il dialogo e la continua suddivisione dei concetti. A domande del tipo: Cos’è il bello? Cos’è la giustizia? Socrate risponde attraverso un algoritmo ricorsivo: partendo da una definizione generale, astratta e vaga (un continuum), si passa ad applicare successivi tagli che partizionano il continuo in unità sempre più piccole e circoscritte. Eppure, come mostrano i casi di approssimazione per eccesso e per difetto ai numeri irrazionali, ogni nuova suddivisione mette in ombra delle parti. Per questo nel Fedro Platone associa il logos ad un animale: esso può essere colto con uno sguardo sinottico dall’esterno o può essere smembrato come un cadavere in un teatro anatomico.

Resta però un’associazione che Zellini non compie e che lascio a chi legge come tema di riflessione aperto. Non solo Platone “fa a pezzi” i concetti, egli decostruisce il mito, riducendolo ad una costruzione umana che può essere riprodotta artificialmente (com’egli stesso fa). E, tuttavia, Platone non insegna a sbarazzarsi dei miti, poiché come evidenzia nelle Leggi, questi servono a mantenere unita una società.

È evidente che Calasso non solo concepisce il sacrificio come un mezzo di comunicazione continua fra le due parti della realtà, ma concepisce anche il discorso che fonda questa comunicazione come continuo. Per questo Calasso ricerca delle esperienze di continuità nella tradizione, nella religione e nelle prassi estatiche. Gl’indizi di un simile atteggiamento sono disseminati nei volumi e nelle immagini che adornano i libri Adelphi. Anche il mito, per Calasso, è un organismo vivente, più precisamente una foresta composta da innumerevoli ramificazioni che, viste con uno sguardo allo stesso tempo precisissimo e vaghissimo, sono tutte congiunte. Non esistono miti e mitologie separate, esse sono, come Adelphi stessa, scaglie di un enorme serpente intertestuale. Solamente in questo serpente-foresta anche i contorni disciplinari svaniscono e la matematica pura può congiungersi con i Veda e Giordano Bruno, le neuroscienze con l’alchimia, la mistica con la biologia evoluzionistica. Che questa visione sia un macro-mito, un raffinato enigma o una postura ideologica è difficile da dire, sicuramente, cercando bene si troverà sparsa e frastagliata l’impronta dell’editore. Unendo i nessi, forse, è possibile riportare in vita una parte sepolta di quei ragionamenti.

Un mito è una biforcazione in un ramo di un immenso albero. Per capirlo occorre avere una qualche percezione dell’intero albero e di un alto numero delle biforcazioni che vi si celano. Quell’albero non c’è più da lungo tempo, asce ben affilate l’hanno abbattuto” (Roberto Calasso, L’ardore)

La mitologia è una modalità peculiare e irriducibile della conoscenza. Suo materiale sono le immagini, le storie e le loro combinazioni, così come la scienza newtoniana è una certa modalità della conoscenza che usa come materiali i numeri, le funzioni, le procedure di calcolo. Ma, a differenza della scienza newtoniana, che viene ogni giorno praticata, la mitologia è qualcosa di cui si è perso l’uso” (Roberto Calasso, L’ardore)

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Italia - 2022
Pensiero
Tommaso Guariento

 

è nato a Padova (1985). È dottore in ricarda di Studi Culturali presso l’Università di Palermo. Scrive per diverse riviste on-line (L’indiscreto, Not, Singola, Che Fare). È membro della cooperativa La Scuola Open Source. Il suo primo libro, Miti, Meme, Iperstizioni, è pubblicato da Krill Books.

 

Pubblicato:
04-10-2022
Ultima modifica:
04-10-2022
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